Created on 17 Jun 2020 ;    Modified on 29 Aug 2021 ;    Translationenglish

In memoria di mio padre

Questo articolo è in ricordo di mio padre Giuseppe, scomparso oggi, 17 giugno 2020.

Vi è mai capitato di riflettere su quale sia il ruolo dei nostri ricordi? Sulla loro importanza?

Vi sono persone, molto più qualificate di me, che affermano: noi siamo i nostri ricordi.

Ho potuto percepire la profondità di questa affermazione in questi ultimi anni, osservando i lenti e inesorabili cambiamenti nei comportamenti di mio padre, che in età avanzata ha sofferto del morbo di Alzheimer.

Non riusciva a ricordare di cosa avesse parlato pochi minuti prima. O di cosa avesse fatto la sera prima.

Eppure, ti continuava a parlare del mitico Bosco, un pezzo di terra tenuto a bosco, comprato da suo padre, ottanta anni prima. O di quello che era avvenuto alla sua famiglia durante il ventennio fascista.

Ricordi frammentari, esposti con difficoltà, eppure presenti nonostante la sua malattia.

E in questo momento di dolore, penso al fatto che non sono in grado di giurare sulla presenza di una vita metafisica dopo la nostra morte: si può avere fede, ma non essere certi.

Ma sono in grado di giurare sulla presenza di un tipo di sopravvivenza alla nostra morte. E questa sopravvivenza è rappresentata dai ricordi che lasciamo di noi, delle nostre azioni, alle persone che hanno avuto la ventura di attraversare la nostra esistenza: noi saremo i loro ricordi.

E così:

Ricordo ...

... quando, da piccolo, mi raccontava della sua vita da scugnizzo a Mercato San Severino.

Un ragazzaccio che passava il tempo marinando la scuola, zappando la terra con la madre, vendendo per pochi spiccioli botti ai ragazzi più facoltosi che se li potevano permettere. E quando suo fratello minore, Antonio, gli chiedeva di farne esplodere uno, gli rispondeva: "Adesso lo vendiamo. Tanto chi lo compra lo fa esplodere subito e il botto lo sentiamo anche noi ...".

Ricordo ...

... quando, un po' più grande, mi raccontava di come era stato rastrellato dai tedeschi. Ed era riuscito a scappare saltando dal camion che lo portava in Germania grazie ad una ragazza che ad una sosta del convoglio tentò di vendere della frutta alle guardie. Quelle si distrassero, e lui profittò per fuggire tra i campi. Le raffiche di mitra che gli spararono dietro lo mancarono.

Nei mesi che seguirono, fino all'arrivo degli americani, visse alla macchia, aggirandosi nei dintorni del paese abbandonato dalla popolazione, facendo la guardia alla casa dei suoi genitori armato di una carabina abbandonata da qualche soldato italiano, fuggito dopo l'otto Settembre.

Degli altri ragazzi rastrellati con lui, non tornò nessuno.

Ricordo ...

... quando al liceo mi scontravo con le sue opinioni politiche. Io a sinistra, e lui schierato a destra. E dopo una litigata più accesa del solito, mi raccontava di come, alla mia età, aveva litigato di brutto con suo padre.

La guerra, quella mondiale, la seconda, era appena finita. Si faceva la fame. E lui voleva arruolarsi in Polizia. Ma suo padre si opponeva: ogni figlio era una risorsa preziosa per coltivare la terra.

Allora una notte fece armi e bagagli, salutò la madre e, senza una lira, fuggì a Roma per arruolarsi. Con la bramosia di reclute che in quel periodo aveva il corpo della Pubblica Sicurezza (oggi: Polizia di Stato), gli impiegati non facevano molte domande. Bastava essere incensurati. E non controllavano neppure la data di nascita: qualche mese in più o in meno non faceva differenza. Destinazione? Ovviamente i Reparti Celere, oggi: Reparti Mobili della Polizia di Stato.

Ed eccolo, novella recluta, a fare servizio durante le infuocate manifestazioni di massa di quel periodo. Per poi essere rapidamente promosso appuntato e inviato a fare il corso paracadutisti presso la Folgore. Direte voi: che c'entrano i paracadutisti? Nulla. Così come non c'entrano nulla gli addetti ai mortai: il corso successivo.

Forte dei relativi brevetti, eccolo inviato in Calabria a fare i pattuglioni in Aspromonte. E' un po' come gli scout: esci per due settimane e vivi accampato in mezzo ai boschi. Solo che qui l'accampamento è militare, con tanto di santabarbara. Ed invece di scalare una montagna per sentirsi dire bravo, te ne vai in giro per cercare di intercettare i malviventi locali, che di quei boschi conoscono ogni singolo anfratto.

Tappa successiva: l'Emilia Romagna. Non poteva mancare la regione rossa. Credo vi siano passati tutti i celerini arruolati in quegli anni. Per poi essere mandato ad Ancona, dove conosce e sposa mia madre Rita.

Qualche anno. Fa tutti i concorsi che può per aumentare di grado. E intraprende una marcia di avvicinamento che nelle sue intenzioni lo doveva riportare, ormai sposato, alla terra natia: prima da Ancona ad Osimo, poi a Roma.

Ma i primi due figli crescono: a Roma cominciano a frequentare le elementari. Mia madre lo convince a smettere di chiedere l'avvicinamento a Napoli: se c'è una cosa che mio padre non ha mai discusso è stata la possibilità di far studiare i figli.

Già. Lui, che la scuola la marinava in continuazione. E che si è diplomato, con enorme sforzo, durante il servizio in Polizia, perché altrimenti non avrebbe potuto fare i concorsi per sottufficiale. Quando si trattava del curriculum studi dei suoi figli diventava intransigente. Ricordo quando alle medie inferiori la professoressa Ricci, che mi insegnava matematica, gli disse che non ero granché capace; le rispose: "I miei figli si laureeranno tutti".

Ed eccoci qui: i suoi quattro figli. Tre laureati. Ed uno, Massimo, che ha dato tutti gli esami di Architettura, e poi non si è laureato perché ha deciso di arruolarsi nei Vigili del Fuoco. Sono sicuro che a mio padre non è sfuggita la sottile ironia della vita, che gli ha rinfacciato il suo comportamento da giovane.

Ricordo ...

... quando, ancora ragazzo, mi insegnava a smontare e rimontare la pistola. E sopratutto mi insegnava a gestirla: "Prima di toccare il carrello d'armamento, hai tolto il serbatoio delle munizioni? Hai controllato se c'è il colpo in canna?".

Ed io pensavo: "Ma quale colpo in canna? Quando c'è in giro la pistola, di munizioni neanche l'ombra. Mi ha fatto vedere una volta com'è fatto un colpo, per poterlo riconoscere. E in quell'occasione, niente pistola".

Strano questo sottufficiale di Polizia. Che va a lavorare senza essere armato. Se lo vedi uscire con la pistola vi possono essere solo due motivi. O deve fare il ciclo di tiri obbligatorio in poligono, o glielo ha ordinato esplicitamente un superiore perché deve partecipare ad un'operazione pericolosa.

E quando gli chiedi se puoi provare a sparare, inevitabilmente ti risponde: "Quando farai il servizio militare. Le armi da fuoco non sono giocattoli. Le devi conoscere. Ma devi anche sapere che sono strumenti per uccidere. Se non devi uccidere, non le toccare".

Ricordo ...

... il suo orgoglio, quando mi sono laureato in Ingegneria. E il silenzio, dopo la laurea, la sera prima della mia partenza per il servizio militare.

Mia madre che mi insegnava a rammendare e attaccare i bottoni, parlando in continuazione per non piangere.

Mia nonna, che si era portata via i due fratelli più piccoli.

E mio padre, in silenzio, osservava e aspettava il suo turno per insegnarmi ad annodare la cravatta. Avrà detto sì e no dieci parole.

Ma ancora adesso, che ho oltre sessanta anni, so annodare la cravatta come me l'ha insegnato lui.


Ciao babbo, un saluto con affetto da Luciano e da tutti i tuoi figli